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Analisi di un compagno anarchico cileno sulle consequenze dell'insurrezione argentina
L'Argentina ha sorpreso il mondo il 20 dicembre del 2001, quando una rivolta popolare spontanea obbligò l'allora presidente Fernando De La Rua a dare le dimissioni. Sembrava di essere di fronte al tracollo della più prosperosa economia dell'America Latina, ma in realtà i sintomi della crisi argentina si potevano avvertire da tempo, e quello che stava accadendo quel giorno non era altro che la vulcanica esplosione di rabbia accumulata dalla gente.
Negli ultimi 30 anni in America Latina si sono diffuse le politiche neoliberiste con programmi di aggiustamento strutturale, misure di austerità, avviando la svolta da un modello industriale sulla base dell' "accumulazione interna" ad uno che favorisce la promiscuità col capitale finanziario, gli accordi sul libero commercio ed una progressiva dipendenza economica di tutta la regione dagli USA. Come sempre succede, la parte peggiore di queste politiche si è abbattuta sui lavoratori con alti livelli di disoccupazione, impoverimento dei salari e dei livelli di vita. I bisogni base ed immediati della gente sono divenuti sacrificabili quando poi è venuto il momento di pagare il debito estero contratto e di garantire al tempo stesso il mantenimento di alti profitti per i padroni locali e stranieri.
In America Latina, a causa della reazione padronale degli anni '80 e '90, siamo in una situazione in netto contrasto con lo scenario politico degli anni '70 e dei primi anni '80. Si è passati da una situazione in cui la classe operaia era all'offensiva ad una in cui il movimento popolare in generale trovasi oggi sulla difensiva. Gli anni '90 in particolare sono stati caratterizzati dalla frammentazione delle lotte e dall'assenza di unità nelle lotte dei diversi soggetti popolari, a fronte di un'offensiva delle classi dominanti. Tuttavia, segnali di crisi di questo modello si sono visti in vari casi di risposta popolare in tutto il continente, come in Ecuador, Venezuela, Bolivia, Perù ed Argentina.
Tutte queste risposte popolari hanno una caratteristica comune: esse indicano, in modo indistinto, un nuovo contesto, in cui il movimento popolare ha nuovamente la possibilità di porsi all'offensiva. Le esperienze del popolo argentino negli ultimi 3 anni vanno inserite in questo scenario e mostrano, pur con tutte le contraddizioni, le potenzialità ed i limiti insiti nell'attuale situazione di mobilitazione nel Sud America. Inoltre esse esprimono, senza ombra di dubbio, che nell'area si sta rafforzando l'opposizione ai diktat economici della finanza internazionale a fronte dell'emergere di un nuovo movimento popolare. Esse indicano che vi sono le condizioni favorevoli per la diffusione di una politica rivoluzionaria, che mostri un nuovo percorso per la liberazione degli sfruttati e degli oppressi in tutta la regione.
L'Argentina ha sorpreso il mondo il 20 dicembre del 2001, quando una rivolta popolare spontanea obbligò l'allora presidente Fernando De La Rua a dare le dimissioni. Sembrava di essere di fronte al tracollo della più prosperosa economia dell'America Latina, ma in realtà i sintomi della crisi argentina si potevano avvertire da tempo, e quello che stava accadendo quel giorno non era altro che la vulcanica esplosione di rabbia accumulata dalla gente.
L'ira popolare era l'espressione di una profonda crisi economica, presente in tutta l'America Latina, che aveva le sue radici nelle politiche di deindustrializzazione portate avanti dalle dittature degli anni '70, e che era andata peggiorando negli anni '90 con la presidenza di Carlos Menem e la sua politica di frenetica introduzione di politiche neo-liberiste nel paese. Alla fine degli anni '90, la crisi era evidente: il tasso di disoccupazione superava il 20% e tendeva a crescere, le attività produttive delle pmi erano in piena stagnazione, una recessione persistente durata 5 anni dal 1996 al 2001 ed un debito estero assolutamente fuori controllo. Tutti sintomi che lasciavano capire come il "modello economico" dell'America Latina non funzionasse affatto (1).
Il progredire della crisi per tutti gli anni '90 portò all'emergere di un movimento di disoccupati, i piqueteros, che divenne subito un nuovo soggetto nelle lotte popolari in Argentina. Nati verso la metà degli anni '90, come un nuovo tipo di organismo popolare, molto incline all'azione diretta e, alquanto spesso, a forme orizzontali di organizzazione (2), i piqueteros chiedevano lavoro e manifestavano attraverso i blocchi stradali. Presto divennero una alternativa reale ai sindacati burocratizzati, dando visibilità e rappresentanza ad un settore del tutto marginalizzato nel mondo del lavoro e nel sindacato. Questo movimento era il primo campanello d'allarme di una crisi che si stava facendo sempre più profonda.
Al peggioramento dei livelli di vita della gente ed alle crescenti difficoltà dei successivi governi nel gestire una situazione economica tendente al peggio, occorre aggiungere un nuovo fattore utile a comprendere la crisi politica di quel 2001: i dissidi interni tra alcuni settori della borghesia. Infatti da una parte c'era il nuovo partito di governo (l'UCR, di tendenza liberale) e dall'altra i Peronisti (il PJ, un movimento nazionalista, di tendenza populista, con forti connotati di destra). Fin dagli esordi della presidenza De La Rua, i Peronisti si posero all'opposizione per destabilizzare il governo, coinvolgendo le associazioni padronali, i sindacati e l'opposizione parlamentare, al fine di recuperare il potere perduto e di ristabilire la loro influenza politica in vista di andare al governo.
Questo violento conflitto inter-borghese esplodeva all'interno di una profonda crisi economica segnata da un soffocante debito estero, dall'inquietudine dei ceti medi, dalla bancarotta delle banche (con conseguente provvedimento governativo di imporre il corralito, una sorta di sbarramento sul ritiro dei risparmi, reclamati dalla gente in possesso di conto corrente) e dalle insopportabili condizioni di vita della classe lavoratrice. Così il 19 dicembre 2001, diversi soggetti sociali, dai disoccupati ai ceti medi, agli inquilini, ecc, scendevano nelle strade per chiedere il ritiro del corralito (3) e le dimissioni del governo. All'improvviso, la prosperosa Buenos Aires venne presa d'assedio da argentini che venivano dalle periferie (come i morochos ed i negros - elegante modo argentino per indicare chi ha un colore della pelle appena più scuro del marmo), dai quartieri poveri o da quei rioni delle città argentine che certamente non sembrano un'Italia Sud Americana.
Il movimento prese possesso delle strade e dopo 48 ore di lotte e di scontri con la polizia, fece cadere il governo impopolare del presidente De La Rua. Ci fu un immediato fiorire di assemblee popolari in quasi ogni quartiere di Buenos Aires, i piqueteros passarono all'offensiva e la sinistra si sentiva fiduciosa in un'impresa a cui non credeva nessun gruppo o partito. Furono in molti a sinistra ad andare oltre, giungendo a interpretare gli eventi di quel dicembre come l'espressione di una nuova soggettività rivoluzionaria, un nuovo modo di fare una "rivoluzione", confondendo la caduta di un governo con i profondi cambiamenti necessari per superare il capitalismo in termini rivoluzionari e riciclando così il vecchio arnese dello spontaneismo. La lotta rivoluzionaria invece sarà vinta dalla classe lavoratrice non nelle strade, ma nelle fabbriche, nei campi, nelle miniere e nelle officine; sarà vinta non perché cade un presidente, ma espropriando la borghesia e distruggendo lo Stato con tutte le altre istituzioni burocratiche, mentre si costruiscono dal basso le nuove istituzioni della democrazia diretta.
Alcuni pensavano in definitiva che l'insurrezione del dicembre 2001 era andata oltre il suo obiettivo e che la rivoluzione fosse dietro l'angolo. In realtà, da allora, la scena politica è divenuta molto più complessa, dal momento che le classi dominanti sono passate nuovamente all'offensiva e che la situazione economica non è migliorata affatto. Il 40% della popolazione vive ancora in povertà e la scarsità di cibo riguarda il 25% degli argentini. La disoccupazione è ancora al 21% e la precarizzazione del lavoro colpisce il 70% della classe lavoratrice. Il 10% della popolazione accede al 51,7% del PIL e le disuguaglianze sono in espansione. Nel 1991, il 20% più ricco a Buenos Aires era 17,5 volte più ricco del 20% più povero; ma nel 2003 il rapporto è salito 52,7 volte. Il debito estero, sempre crescente, era di 114.600 miliardi di dollari nel maggio 2002, ma nei primi mesi del 2004 era a 178mila miliardi di dollari (4). In questa situazione, l'Argentina è ancora lì che annaspa in una crisi duratura, senza alcuna speranza di uno sbocco a breve termine, ma neanche in un lasso di tempo ragionevolmente lungo.
Quando De La Rua venne deposto dalla rivolta popolare, assunse la presidenza Duhalde, dopo il breve mandato di Rodriguez Saa. Tutto lo sforzo del governo era orientato a ristabilire la "normalità" nelle istituzioni e nell'economia per garantire una transizione....al passato. Il nuovo presidente Kirchner, eletto nel 2003, ha seguito il medesimo orientamento: infatti benché denunci i misfatti del neoliberismo non si sogna di toccare i capitalisti. Denuncia le pressioni internazionali sui paesi poveri, ma continua a ritenere prioritario il pagamento del debito estero rispetto al miglioramento dei livelli di vita della popolazione. E soprattutto, continua a reprimere il movimento popolare giocando la carta del
divide et impera, come pure a demonizzare le manifestazioni di protesta. In barba alle illusioni di certa sinistra, il governo Kirchner appare sempre più come un disperato tentativo di preservare il passato con le sue vecchie istituzioni, dando loro una veste nuova, obiettivo per il quale ricorre alla repressione e ad ogni sorta di compromessi con i poteri imperialisti.
A causa delle politiche neoliberiste applicate in Argentina ed agli aspetti finanziari ad esse connesse, le attività manifatturiere non hanno beneficiato delle misure economiche degli ultimi decenni, con conseguente declino dell'industria argentina. Le prime esperienze di
fabricas recuperadas risalgono a 7 anni fa, nel momento di peggioramento della crisi economica in Argentina, quindi ben prima dell'esplosione sociale del 19 e 20 dicembre 2001. Quelle esperienze erano espressione di un'attività della classe lavoratrice costretta alla difensiva, che cercava di non perdere il lavoro per non cadere nella disoccupazione. Si trattava di esperienze ben lungi dal rappresentare una classe lavoratrice all'offensiva.
La prima ad essere occupata nel 1996 fu la Yaguanè (surgelazione); poi nel 1998 l'IMPA e quindi nel 2000, nel distretto di Avellaneda (Buenos Aires), 90 metalmeccanici della GIP si impadronirono dell'azienda e costituirono la Cooperativa Union y Fuerza. Sempre loro nel gennaio 2001, dopo aver pagato una indennità, aprirono una fabbrica in una località in cui vi erano stati più di 1000 fallimenti aziendali negli anni precedenti (5). Sempre nel 2001, la fabbrica di laterizi Zanon di Neuquen e la fabbrica tessile Brukman di Buenos Aires, venivano abbandonate dai rispettivi padroni e rilevate dai lavoratori. La Brukman venne occupata il 18 dicembre 2001, proprio il giorno prima
dell'Argentinazo. La Zanon ha incrementato la produttività ed ha creato nuovi posti di lavoro (ora ci sono 250 operai), mentre Jacob Brukman l'ex-proprietario della Brukman ha fatto sgomberare i lavoratori il 18 aprile del 2003, ma nell'ottobre dello stesso anno, la fabbrica è stata dichiarata fallita, espropriata e restituita alla cooperativa 18 de Diciembre, per cui gli operai hanno ripreso la produzione al canto di
"Aqui estàn, estas son, las obreras sin patron"...Nel frattempo il padrone aveva distrutto i macchinari e gli operai hanno presidiato i capannoni per 6 mesi per evitare attentati da parte dei padroni di riprendere la produzione usando il crumiraggio (6). Oggi vi sono circa 170 aziende occupate e circa 10.000 operai che prendono parte a questa esperienza di lavoro collettivo. Ovunque sono scomparse le gerarchie interne e le entrate vengono suddivise in parti uguali fra tutti i lavoratori. Se si pensa che in passato il 65-70% delle entrate diventavano reddito per i padroni ed i loro manager....!
Nei giorni dell'Argentinazo, nel dicembre 2001, si diffuse una rete di solidarietà tra ed intorno le aziende occupate grazie al forte appoggio fornito da molti attivisti e dalle assemblee popolari. Iniziarono così ad organizzarsi nella lotta collettiva per le loro richieste comuni. Per prima cosa si chiedeva di cambiare la legge sulla bancarotta, la quale stabilisce che una volta dichiarato il fallimento di un'azienda, i suoi macchinari e le sue strutture debbano essere messe all'asta entro 4 mesi per pagare i creditori e ripianare il bilancio. Nei casi in cui i lavoratori abbiano occupato le fabbriche, laddove è stata richiesta una indennità e altrimenti, il proprietario può reclamare la sua proprietà subito dopo. I lavoratori protestano contro il fatto che la legge favorisce il pagamento del debito a danno del diritto di lavorare per proseguire la produzione.
Attualmente il governo sta preparando una modifica della legge, del tutto respinta dai lavoratori, con cui si autorizza un modello di comproprietà dell'azienda il quale contrasta con la richiesta da parte dei lavoratori di poter lavorare in condizioni di lavoro indipendente. Le imprese organizzatesi in MNER (Movimento Nazionale delle Imprese Occupate) e che hanno assunto la forma legale di cooperative chiedono delle modifiche alla legge. Alcune imprese che non sono nel MNER (tra cui anche la Zanon e la Brukman prima di costituirsi in cooperativa nel 2003) chiedono l'applicazione dell'art.17 della Costituzione, con cui le espropriazioni si possono fare quando lo richiede l'interesse pubblico. Secondo loro, così come si espropria un terreno per costruirci una strada, si dovrebbe espropriare un'azienda al fine di creare più occupazione. Questo è il punto più controverso all'interno di un movimento che resta unito grazie alla volontà dei lavoratori di mantenere la loro occupazione, mentre cerca di trasformare radicalmente le relazioni di dipendenza, gerarchia e sfruttamento in relazioni di mutuo appoggio ed uguaglianza (infatti in quelle fabbriche i salari sono uguali).
Così, nel pieno della crisi, col motto "Ocupar, Resistir, Producir", i lavoratori hanno spontaneamente dimostrato al mondo la loro capacità di saper gestire la società, una volta che i padroni se la sono svignata.
a. Rapporti tra i soggetti politici e il nuovo emergente movimento sociale
L'insurrezione argentina nel dicembre 2001 non era guidata da nessun partito della sinistra. Molti dei gruppi e dei partiti della sinistra hanno avuto senza dubbio una certa presenza all'interno dei molti organismi di lavoratori, ma la ribellione scaturì spontaneamente ed autonomamente. Il che costituiva ed apriva una situazione del tutto nuova per gli organismi nati con la rivolta, quali le assemblee popolari che cercavano una logica politica alquanto diversa da quella dei partiti tradizionali (sia di destra che di sinistra). Ma permanendo nello stadio dello spontaneismo, non erano in grado di sviluppare un progetto politico che potesse dare una coerenza di lungo periodo all'intera esperienza di organizzazione dal basso. D'altra parte, la maggior parte dei partiti di sinistra insistevano nel praticare il rapporto tradizionale tra gruppi politici e movimento sociale, che prevede un ruolo passivo del movimento sociale ed un ruolo di rappresentanza del soggetto "politico".
Questa linea venne respinta dalla gente a livello intuitivo, ma l'intuizione non è sufficiente, perché prima o poi si finisce con l'accettare il ruolo tradizionale dei partiti ufficiali o di sinistra, oppure le esperienze costruite annegano nelle proprie contraddizioni e nell'incapacità di proiettarsi ad un livello strategico. Questo è stato il caso drammatico della maggior parte delle assemblee popolari. Così, l'originario grido di lotta del popolo argentino "Que se vayan todos" che esprimeva la volontà di farla finita con le burocrazie corrotte e con il ceto politico è finito col fatto che tutti questi sono ancora lì al loro posto. E a questo punto, un'alternativa comunista-anarchica ha parecchio da dire e da offrire in più al popolo argentino, dato che come corrente politica è l'unica a dire che occorre respingere lo Stato e le forme tradizionali della politica e che ci vuole la democrazia diretta e l'azione diretta. Il comunismo-anarchico è la corrente politica che probabilmente avrebbe potuto svolgere un ruolo chiave nel dare una cornice politica allo sviluppo di un programma strategico politico e rivoluzionario per il popolo, basato sulle esperienze popolari, ma usando gli insegnamenti delle precedenti esperienze rivoluzionarie internazionali, da cui è nato l'anarchismo. Una alternativa siffatta deve ancora essere costruita, eppure molti compagni stanno già lavorando in questa direzione in Argentina.
b. Relazioni tra proprietà e gestione
Uno dei dibattiti più grossi nella sinistra rispetto alle fabbriche occupate ruota intorno a quale sia la soluzione immediata da seguire in armonia con un progetto rivoluzionario: se le fabbriche debbano essere nelle mani dei lavoratori stessi organizzati in cooperative, oppure se solo la gestione spetti ai lavoratori, mentre la proprietà spetta allo Stato. In un articolo del giornale comunista-anarchico argentino EN LA CALLE (organo della OSL-Organisacion Comunista Libertaria) questo problema viene posto in modo accurato e visto alla luce di una alternativa anarchica:
"In tale contesto, varie correnti della sinistra hanno cercato si sviare il dibattito sull'alternativa tra controllo operaio e cooperative operaie. Celia Martinez della commissione interna della Brukman (poi candidata per il PTS (7)) sostiene di voler lottare per la statalizzazione e di non volere le cooperative per evitare il fantasma della competizione, confondendo così lo status legale della cooperativa -necessario per l'espropriazione- con gli aspetti politici del cooperativismo. Secondo questa posizione bisognerebbe chiedere
l'espropriazione senza pagare, con un capitale iniziale fornito dallo Stato, il quale si assume il compito di pagare i salari e in certi casi di acquistare la produzione. In altre parole, si vuole che lo Stato dia, mentre i lavoratori fanno il piano e gestiscono. Ora l'espropriazione prevede che i lavoratori si diano uno status legale, per esempio, una cooperativa. Eppure, nonostante la Brukman, la Zanon, la Ghelco, la Panificacion 5 e la Grisinòpolis, tra altre 150 fabbriche occupate, abbiano adottato lo status legale di cooperativa, il problema non è affatto di natura legale.Ora, secondo una strategia comprensibile ma non condivisibile da parte nostra, la statalizzazione con una gestione operaia è possibile solo in un contesto in cui lo Stato sia soggetto al potere del popolo e dei lavoratori. Pretendere dallo Stato borghese che accetti il fatto che le espropriazioni non sarebbero una soluzione compatibile con il contesto capitalista, ma che trasformerebbero il contesto in esercizio del potere operaio, in cui lo Stato ridà le fabbriche agli stessi lavoratori, gestisce i salari e assicura il capitale iniziale, è solo un'illusione; tenuto conto poi che quello stesso Stato-governo è l'artefice della situazione odierna e che il movimento operaio è sulla difensiva.
D'altra parte, il cooperativismo non è un progetto che dia una soluzione definitiva ai problemi dei lavoratori. Ed è ben lungi dall'essere una risposta agli interessi della massa dei lavoratori. Il cooperativismo non si pone il problema delle relazioni capitalistiche nella produzione,
poiché si pone solo domande superficiali relative al monopolio, alla competizione e così via. Ancor meno fattibile è creare, attraverso una rete di cooperative, un sottosistema parallelo al capitalismo./p>L'idea della gestione operaia della produzione e della società implica che il solo potere in una società rivoluzionaria sia quello delle organizzazioni della classe lavoratrice. Questa gestione dei lavoratori va intesa come abolizione di qualsiasi potere esercitato da una minoranza, come abolizione del potere della borghesia, vale a dire, come abolizione di qualsiasi forma di Stato. Noi, lavoratori, non dovremmo assumere la gestione solo dei campi, delle fabbriche e delle officine, ma anche, di tutta la società" (8).
Quindi, secondo i compagni della OSL, la soluzione non sta nel progetto politico del cooperativismo,
né nel progetto politico della gestione operaia con statalizzazione, bensì nel realizzare le condizioni per cui i lavoratori non perdano il lavoro -per esempio assumendo lo status legale di cooperativa (senza per questo far propria politicamente la logica del cooperativismo)- per mantenere la capacità di auto-organizzazione e di ricerca collettiva di una alternativa globale per il cambiamento della società, ben consapevoli che qualunque riforma si ottenga oggi, si tratta solo di un avanzamento parziale che richiede di essere completato dalle lotte di altri soggetti della lotta popolare.
c. Verso una libera società di managers e di capitalisti?
L'esperienza argentina, nonostante le molte contraddizioni e i problemi, mostra inequivocabilmente la natura superflua di una classe dominante o di una classe di gestori. Quando i padroni si sono dimostrati incapaci nell'amministrare l'industria e nel mantenere la produzione, i lavoratori organizzati hanno fatto vedere che loro invece sono capaci di farlo e di farlo meglio. La storia del movimento degli sfruttati è piena di questi esempi (le reti operaie nell'industria cilena, le collettività agricole ed industriali nella Spagna rivoluzionaria, i soviet ed i consigli operai nella Russia del 1917, ecc.), e l'esperienza argentina non fa altro che dimostrare una volta di più che la classe operaia non ha perso nulla della sua intrinseca capacità anche dopo un secolo e mezzo di lotte proletarie. Ancora una volta emerge il fattore fondamentale della produzione: senza i lavoratori i padroni non sono in grado di far andare l'industria, ma senza i padroni i lavoratori ci riescono e meglio.
Queste esperienze inoltre mettono in evidenza molti dei problemi che gli anarchici altresì si trovano ad affrontare quando si risveglia la lotta popolare; esse ci mostrano che la costruzione di una società libertaria non è la ripetizione di cliché o di slogans: non vi sono soluzioni facili e le esperienze variano enormemente in base ai fattori locali, quali i problemi legali, le limitazioni economiche e la storia locale della
resistenza di classe. La rivoluzione non si fa nel giro di una notte, ma è l'accumularsi di diversi fattori, in spazi e tempi diversi, che noi dobbiamo saper collegare in modo coerente in una strategia rivoluzionaria ed anarchica, con cui dimostrare quanto sia necessaria la costruzione di un'organizzazione anarchica, così come noi comunisti-anarchici la prefiguriamo (9), perché faccia da catalizzatore delle lotte popolari, in quanto la spontaneità non è sufficiente.
Dobbiamo iniziare a pensare seriamente in modo nuovo ai problemi del periodo pre-rivoluzionario affrontati sulla base delle esperienze della resistenza di classe(rapporti tra proprietà a gestione della produzione, come nel caso delle fabbriche occupate, rapporti tra movimento popolare e organizzazioni politiche), considerando anche le condizioni concrete delle lotte e le peculiarità del luogo in cui si sviluppano, al fine di adottare scelte politiche chiare e risposte pratiche. Allo stesso tempo, essere in grado a livello programmatico di comprendere le diverse lotte per collegarle sulla via verso la rivoluzione libertaria.
Tutte queste esperienze provano che l'aspirazione anarchica ad una libera società di gestori, (sia economicamente che politicamente
(10)) e di capitalisti non è un'utopia, ma una reale possibilità, radicata nel presente, nelle capacità della stessa classe lavoratrice. Ancora una volta la storia prova che è maturo il momento per la giustizia sociale e la libertà, qui ed ora, e che tocca a noi preparare quel momento, organizzarci e lottare perché esso diventi realtà il prima possibile.
Perciò, quando gli anarchici chiedono l'impossibile, vuol dire che il regno del possibile è più vasto di quello che la borghesia vorrebbe farci credere. Noi dimostriamo che ogni esperienza sociale, ogni azione rivoluzionaria, nel costante contrapporsi degli oppressi contro i loro oppressori, richiede che le forze organizzate dell'anarchismo assumano un ruolo decisivo, per mettere in luce nuovi problemi, nuove prospettive, nel mentre si gettano, proprio nel corpo del regime capitalistico, i nuovi mattoni nella costruzione della libera società dei gestori e dei capitalisti.
Josè Antonio Gutierrez D.
Note:
(1) Hombre y Sociedad no. 14 supplemento dicembre 2001
(2) Sebbene negli ultimi 2 anni ci sia stata una tendenza crescente in alcuni
piquetero verso una certa burocratizzazione
(3) richiesta molto sentita all'interno dei ceti medi
(4) EN LA CALLE, Buenos Aires, no.5. giugno-luglio 2004
(5) CNT, no. 301, maggio 2004
(6) CNT, no.289, febbraio 2004
(7) partito trotzkista
(8) EN LA CALLE, Buenos Aires, no.49, settembre 2003
(9) vedi gli sforzi diretti in questa direzione dei compagni della OSL in Argentina, della OCL in Cile e del WSM in Irlanda insieme ad altri che hanno raccolto lo spirito della corrente
piattaformista dell'anarchismo
(10) rispetto ad una libera società di gestori politici, in cui lo Stato come istituzione sia stato eliminato, l'esperienza argentina delle assemblee popolari fornisce un'indicazione di come al pari dei lavoratori delle fabbriche occupate che gestiscono la produzione e la fabbrica, la gente in molti quartieri di Buenos Aires ha preso le questioni politiche nelle proprie mani nell'ambito di quegli spazi orizzontali di auto-organizzazione.
Traduzione a cura di FdCA Ufficio Relazioni Internazionali
Articolo da Red & Black Revolution n.8 - inverno 2004
Rivista di comunismo libertario
Altri articoli dal numero 8 (in inglese)
http://struggle.ws/wsm/rbr.html
Versione PDF:
http://struggle.ws/wsm/pdf/rbr/rbr8.html
Workers Solidarity Movement
http://www.struggle.ws/wsm